Cento anni di scautismo cattolico in Umbria: a Longarone, partiti ragazzi e tornati uomini

di Enrico Biagioli

Leggi la prima parte: gli albori

Leggi la seconda parte: la grande avventura

Le attività più significative svolte dagli scout umbri sono senza dubbio quelle svolte in occasione delle calamità nazionali come quella della tragedia del Vajont nel 1963, e quelle dell’alluvione di Firenze e dell’alluvione del Bellunese nel 1966. In un periodo dove la Protezione Civile non esisteva, gli scout erano considerati la Terza Forza Civile, appena si verificava una calamità, ci si organizzava ed entro poche ore eravamo pronti per partire e per portare il nostro aiuto (tutto a nostre spese ed autonomi per non gravare su nessuno).

Enrico Biagioli ricorda così la sua esperienza: «Appena venuto a conoscenza della calamità abbattutasi su Longarone, il Commissario Regionale A.S.C.I. Luciano Ciurnelli, si dette da fare per predisporre subito un gruppo di volontari disposti a partire e, nel giro di poche ore, aiutato da qualche telefonata, organizzò un contingente di 19 Rover umbri; al sottoscritto, poco più che sedicenne, si unirono Dino Ragni da Spoleto e n.1 Rover da Assisi, n.8 da Foligno, n.3 da Perugia e n.5 da Terni. Partimmo con il treno tutti insieme la sera del 14 ottobre e, dopo aver viaggiato tutta la notte, arrivammo la mattina seguente a Belluno, dove con mezzi militari ci portarono a Fortogna, nei pressi di Longarone, dove era stata allestito il principale cimitero per riunire tutte le vittime ed una tendopoli di servizio…
…In quell’occasione venimmo a contatto con altri Rover di Milano, Verona, ed altre città ed il nostro incarico era quello di sistemare tutte le salme che venivano li confluite. Quei corpi martoriati e spesso fortemente deturpati venivano portati li dai mezzi dei Vigili del Fuoco e dei militari che li avevano recuperati lungo il fiume o in mezzo alla fanghiglia formatasi dopo la tragedia. Il nostro compito era davvero pietoso, dovevamo ripulire e disinfettare quei corpi, per poi avvolgerli in teli di plastica e porli così dentro le bare. Una coppia di medici inglesi ed un medico iugoslavo compilavano per ogni cadavere una scheda nella quale venivano  evidenziati tutti i possibili segni di riconoscimento come cicatrici, statura, colore dei capelli, eventuali protesi dentarie, mentre eventuali anelli, orecchini o quant’altro venivano messi in una  busta di plastica numerata. Ultimate queste tristi operazioni le bare venivano richiuse e numerate e poi noi le portavamo a spalla per sistemarle in fila all’interno di fosse comuni precedentemente scavate da ruspe. Una volta che la fossa era riempita veniva ricoperta di terra e si procedeva con un’altra fossa. Terminata ogni operazione, venivamo irrorati a spruzzo con un disinfettante per impedire l’esplosione di eventuali infezioni o epidemie e noi stessi, a scopo precauzionale, lavoravamo costantemente con guanti di gomma e mascherine e con dei camici bianchi del tipo usa e getta. Ricordo ancora la prima camionetta dei Vigili del Fuoco che scaricammo e che conteneva un sacco di plastica, che una volta aperto ci rilevò un piede di un uomo e la testa, troncata di netto, di una bambina con orecchini e con capelli chiari, ancora fissati a coda di cavallo da un fermaglio. Questa pietosa immagine mi è rimasta impressa nella mente e fa parte dei miei ricordi che non si cancelleranno mai. Il primo giorno, appena visto quanto era accaduto e preso atto del compito che dovevamo svolgere, ho pensato veramente di non riuscire a superare quei terribili momenti e sono stato tentato di chiedere di essere trasferito ad altro incarico, ma poi, il desiderio di essere di aiuto a quella povera gente, mi ha fatto superare ogni esitazione e difficoltà e mi sono buttato anima e corpo in quel servizio di aiuto, verso chi aveva tanto bisogno di noi. I pochi superstiti ed i parenti dei morti vagavano inebetiti e storditi tra le fosse, ma non vedevi nessuna lacrima su quei visi segnati dal dolore, avevano la fierezza delle persone del Veneto, le tenevano per sè, anche se dentro si sentivano distrutti. Diverse volte, armati di pale e picconi, abbiamo esaudito i loro desideri nel riesumare delle bare contenenti i corpi dei propri cari, che avevano riconosciuti dalle foto appese, perché li potessero portare in altri cimiteri o nelle proprie tombe di famiglia. Per pranzo, nella tenda della Croce Rossa mangiavamo in tutta fretta dei panini preparati da una crocerossina molto anziana, che diceva di aver fatto la prima guerra mondiale. Ci trattava con molto amore, come fossimo tutti suoi figli, e a volte, quando le camionette da scaricare erano in fila, ci imboccava lei stessa, per non farci togliere i guanti e perdere tempo. La sera, con camion tornavamo a Safforze dove eravamo sistemati in una Colonia di proprietà della P.O.A., insieme a tutti gli altri soccorritori ed ai pochi superstiti…
…Dopo cena, ci riunivamo intorno ad un gran fuoco, da noi organizzato, dove si fraternizzava e si intonavamo canti di montagna, con il tentativo di far dimenticar, almeno per un momento, quella tragedia a chi aveva negli occhi tanta angoscia e disperazione. Alla Colonia conoscemmo anche un giovane ragazzo, del quale non mi ricordo il nome, che non sapeva darsi pace dell’accaduto e ci raccontò la sua triste storia. La sera precedente il disastro stava ritornando con il motorino a casa (Longarone), lavorava a Belluno, e lungo la strada fu fermato da una pattuglia di carabinieri, che non lo fecero passare in quanto nella nottata si prevedeva uno smottamento di terreno, lui ritornò indietro ed andò a dormire tranquillamente da dei parenti, ma la mattina seguente gli arrivò, come un macigno, la tremenda notizia della catastrofe e perse così tutta la sua famiglia composta di oltre dieci persone. Questo racconto ci angustiò per un lungo periodo e ci fece molto riflettere, perché voleva dire che tutti quei morti potevano essere evitati, se non si fosse sottovalutato l’evento previsto…
…La mattina ci alzavamo molto presto ed alle 7,00 eravamo già sul posto per riprendere il nostro lavoro di soccorso; ricordo molto bene anche il freddo intenso che i nostri pantaloni corti della divisa non riparavano e gli impermeabili di gomma telata che ci avevano regalato per attutire il freddo,  che non rispondevano allo scopo ma, anzi erano molto freddi e creavano una fastidiosa condensa. Prima di ripartire siamo andati tutti a Longarone città e ci siamo potuti rendere veramente conto di cosa era successo. La furia dell’acqua aveva divelto rotaie, diroccato case e trasportato a valle auto e tutto quanto aveva trovato lungo il suo percorso. Partimmo nel pomeriggio, con dei camion della Croce Bianca di Milano che ci trasportarono gentilmente fino a Verona, e da qui in treno riprendemmo la via del ritorno a casa, a malincuore e con una profonda tristezza; quelle persone ci erano diventate familiari, forse anche amiche, comunque l’esperienza ci aveva fatto maturare di colpo e ricorderò sempre quei momenti fra i più intensi ed importanti della mia vita e posso sicuramente dire che siamo partiti ragazzi ma siamo ritornati uomini
».

(fine)

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